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Le origini del Coaching

BREVE STORIA DEL COACHING

Il Concise Oxford Dictionary definisce il verbo “to coach” come “addestrare, fare da tutor, dare indizi, preparare mediante fatti”.
La definizione non ci è molto d’aiuto, poiché queste attività si possono svolgere in molti modi, alcuni dei quali non hanno niente a che vedere con il coaching.

Nel coaching il modo in cui si fanno le cose è importante quanto le cose in sé. Il coaching dà risultati perlopiù grazie alla relazione di sostegno tra il coach e il proprio cliente, e ai mezzi e allo stile della comunicazione che vengono utilizzati.

Il cliente non acquisisce i fatti dal coach, ma li attinge al proprio interno, stimolato dal coach. L’obiettivo di potenziare la performance è essenziale: la questione è come ottenerlo al meglio.

L’idea del coaching è nata nel campo dello sport e per qualche strana ragione ci sono sempre stati “coach” di tennis ma “istruttori” di sci.

Il tema dell’insegnamento del tennis, dello sci e del golf è stato affrontato per la prima volta più di vent’anni fa da Timothy Gallwey, educatore a Harvard e tennista esperto, che ha lanciato il guanto della sfida con un libro intitolato The Inner Game of Tennis, seguito ben presto da Inner Skiing e The Inner Game of Golf.

La parola “inner” indicava lo stato interiore del giocatore. Per usare le parole di Gallwey:

“il rivale che si ha dentro la propria testa è più spaventoso di quello che si trova dall’altra parte della rete”.

Chiunque abbia vissuto una di quelle giornate in cui sul campo da gioco non si riesce a farne una giusta capirà subito a cosa si riferisce l’autore.

Gallwey affermava inoltre che per quanto un coach riesca ad aiutare un giocatore a rimuovere o ridurre gli ostacoli interiori alla propria performance, in quest’ultimo sorgerà comunque un’inaspettata capacità naturale di apprendere e di giocare, senza bisogno di alcuno stimolo tecnico da parte del coach.

Al tempo della loro prima pubblicazione, pochi coach, istruttori o professionisti riuscivano ad aderire alle idee propugnate dai libri di Gallwey, men che meno ad abbracciarle, mentre i giocatori li divorarono, facendone in breve dei veri best-seller. A quel punto, la professione di allenatore era in pericolo.

Gli allenatori pensavano che le idee di Gallwey fossero un tentativo di stravolgere completamente l’insegnamento degli sport, che minassero il loro ego, la loro autorità e i principi nei quali avevano investito così tanta energia.

In un certo senso era vero, tuttavia la loro paura aveva ingigantito i loro timori sulle sue intenzioni: quelle di Gallwey non erano generiche minacce, ma piuttosto suggerimenti volti ad aumentare l’efficacia del loro approccio.

L’essenza del coaching

Gallwey aveva identificato puntualmente l’essenza del coaching, che consiste nel liberare il potenziale delle persone per massimizzare le loro prestazioni. Più che di insegnare loro qualcosa, si tratta di aiutarle a imparare.

Dopotutto, come hai imparato a camminare? Tua madre ti ha forse dato  le istruzioni per farlo? Tutti noi abbiamo una capacità innata di apprendimento, che di fatto viene ostacolata dall’educazione canonica.

Questa idea non è affatto nuova: Socrate l’aveva già espressa circa duemila anni prima, ma per qualche ragione la sua filosofia si è dissolta nella corsa al riduzionismo materialistico degli ultimi due secoli. Ora il vento è cambiato, l’idea è tornata in auge e il coaching, se non Socrate, si è affermato e resterà in voga per almeno un paio di secoli!

I libri di Gallwey hanno coinciso con il sorgere di un modello di psicologia più ottimistico rispetto alla datata visione comportamentista che vedeva gli esseri umani come poco più che vuoti recipienti in cui si poteva versare qualunque cosa.
Il nuovo modello suggeriva invece l’idea che fossimo piuttosto simili a ghiande, ciascuna delle quali contiene al suo interno tutto il potenziale per diventare una magnifica quercia.

L’essenza dell’albero è già dentro di noi: per crescere ci occorrono nutrimento, incoraggiamento e luce.

Tim Gallwey è stato forse il primo, in particolare nel suo The Inner Game of Work, a presentare un metodo di coaching, semplice ma esauriente, che potesse essere applicato prontamente alla maggior parte delle situazioni.

Molti anni fa ho seguito Gallwey e, insieme ad altri, mi sono formato con lui e ho fondato The Inner Game in Gran Bretagna. Ben presto abbiamo allestito un piccolo team di coach, in principio tutti formati da Gallwey in persona, in seguito anche da noi. Tenevamo corsi di “Inner Tennis” e settimane bianche di “Inner Skiing”, e molti golfisti hanno migliorato la loro battuta grazie all’“Inner Golf”.

Non è passato molto tempo prima che i nostri clienti sportivi cominciassero a chiederci come si potessero applicare gli stessi metodi anche nelle loro aziende. Così l’abbiamo fatto, e oggi tutti i maggiori esponenti del business coaching si sono diplomati alla scuola per coach di Gallwey, o comunque ne sono stati profondamente influenzati.

Durante gli anni di esperienza nel campo del business, abbiamo sviluppato ed elaborato quei primi metodi, adattandoli alle questioni e alle condizioni attuali dell’ambiente degli affari. Alcuni di noi si sono specializzati nell’insegnare ai manager come fare coaching, altri si sono presentati come coach indipendenti per dirigenti aziendali e i loro team.

Pur facendosi concorrenza sul mercato, i coach tendono a essere amici tra loro, e non sono rari i casi di collaborazione. Questo la dice lunga sul metodo di base: è stato Gallwey stesso a suggerire l’idea che

“il tuo rivale sul campo da tennis in realtà è un tuo amico, che ti spinge a sforzarti al massimo e a correre più veloce”.

Non è un amico se si limita a tirarti la palla, perché questo non aiuta di certo a migliorare il tuo modo di giocare, e non è forse quello che cerchiamo tutti di fare nei diversi campi in cui operiamo?

Sebbene Tim Gallwey, i miei colleghi alla Performance Consultants International e molti altri che ora lavorano come business coach si siano fatti le ossa nello sport, in generale il coaching in questo settore è cambiato ben poco: attualmente è in ritardo di almeno dieci anni rispetto alla metodologia di coaching oggi applicata praticamente ovunque negli affari.

Questo succede perché 25 anni fa, quando abbiamo introdotto il coaching nel mondo degli affari, in quel contesto il termine “coaching” era nuovo, e non implicava una lunga storia di attività passate. Siamo riusciti a introdurre nuove idee senza dover combattere né vecchi pregiudizi né vecchi praticanti di un coaching datato.

Questo non vuol dire che non abbiamo incontrato resistenze al coaching nel business; a volte le incontriamo tuttora da parte di singole persone che sono rimaste isolate o cieche di fronte al cambiamento. Il coaching nel mondo degli affari è una pratica ormai affermata che continuerà nel tempo, anche se il termine in sé dovesse scomparire, poiché i valori, le convinzioni, gli atteggiamenti e i comportamenti a essa associati stanno diventando la norma per chiunque.

 Il Mentoring

Infine, mentre definisco il coaching, dovrei probabilmente accennare al mentoring, un altro concetto che si è inserito nel linguaggio del business. Il termine deriva dalla mitologia greca, in cui si narra che Ulisse, al momento di partire per Troia, affidò la sua casa e l’educazione di suo figlio Telemaco al suo amico Mentore.

“Digli tutto ciò che sai”, raccomandò Ulisse, ponendo così involontariamente dei limiti al mentoring.

Mike Sprecklen fu il coach e mentore della famosa coppia di invincibili canottieri Andy Holmes e Steve Redgrave.

“Non sapevo più cosa fare, avevo insegnato loro tutto ciò che sapevo a livello di tecnica”, ha dichiarato Sprecklen qualche anno fa, alla chiusura di un corso di performance coaching, “ma questo ha aperto la possibilità di andare oltre, perché loro possono percepire delle cose che io non riesco nemmeno a vedere”.

Aveva scoperto una nuova strada per andare oltre, lavorando sulle percezioni degli atleti e a partire dalle loro esperienze, invece che dalle sue. Il buon coaching – e anche il buon mentoring, per quanto mi riguarda – può, anzi deve spingere un individuo oltre ai limiti di ciò che il coach o il mentore conosce.

L’effetto del coaching non dipende dall’azione di “un individuo più vecchio e più esperto che trasmette ciò che sa”.
Esso richiede che il coach sia esperto nel coaching, ma non nel tema o nel campo in questione: questo è proprio uno dei suoi maggiori punti di forza.

Cos’è il Coaching?

“Il coaching si incentra sulle possibilità future, non sugli errori passati”.

John Whitmore

 Cos’è esattamente il Coaching? È una buona domanda, alla quale non è facile rispondere in quanto non c’è una singola definizione comunemente accettata.

Ci sono molti approcci diversi e manca una standardizzazione. Nella nostra definizione:

“il Coaching è un processo collaborativo in cui i clienti scoprono autonomamente le proprie risposte grazie all’uso mirato di domande”.

Alcune persone potrebbero vederla come una definizione da “puristi” e in parte potremmo essere d’accordo. Un simile approccio “non-pilotato” va bene in teoria, ma nella pratica spesso c’è più input da parte del Coach, a seconda delle preferenze e dei bisogni del cliente.

Tuttavia, quando il Coach tende a pilotare troppo la persona, non è più Coaching: superato un certo confine diventa Mentoring.

Ci sono svariati tipi di Coaching diversi.

  • Il più conosciuto è forse il LIFE COACHING, in cui le persone lavorano su problematiche che le bloccano nella vita o che causano loro preoccupazione.
  • Il BUSINESS COACHING – conosciuto anche come Coaching Aziendale – è invece quello che dal nome ci si aspetterebbe: Coaching in ambito lavorativo, pagato dall’azienda.
  • L’EXECUTIVE COACHING riguarda invece i vertici aziendali: quadri, amministratori delegati, direttori, ecc.

Ci sono inoltre altre nicchie come il Coaching per la carriera, quello per la gestione del tempo, per le relazioni e il Coaching per la sicurezza di sé, solo per elencarne alcune.

Se sei interessato a diventare un Coach, la buona notizia è che puoi farlo: non sono obbligatorie né qualifiche, né esperienza per “mettersi in proprio” o cominciare a fare Coaching all’interno di un’organizzazione.

PERCHÉ DIVENTARE COACH?

Come con tutte le cose, persone diverse hanno ragioni diverse per volersi dedicare al Coaching. Ecco alcune delle più comuni.

 SODDISFAZIONE E REALIZZAZIONE PERSONALE

Quello del Coach può essere un lavoro di grande soddisfazione. È un enorme privilegio poter lavorare con le persone sulle questioni più importanti e intime della loro vita. Questo vale sia che tu faccia Coaching all’interno dell’azienda per cui già lavori, sia che tu operi come Coach indipendente in ambito Life, Executive o qualsiasi altra delle specializzazioni.

Le persone spesso decidono di diventare Coach perché vogliono fare la differenza nel mondo. Non c’è niente di comparabile alla sensazione che si prova nell’aiutare qualcuno a produrre un cambiamento, affrontare un problema, raggiungere un obiettivo o semplicemente essere più felice.

Le persone si rivolgono a un Coach per molte ragioni diverse, ma generalmente è perché c’è una distanza da colmare tra come stanno le cose e come la persona vorrebbe che fossero.
Il ruolo del Coach è quello di supportare la persona nel costruire un ponte per colmare questa distanza.

Il cliente potrebbe voler
– guadagnare di più,
– fare progressi nella propria carriera,
– avere relazioni più ricche o uno stile di vita più equilibrato.

Il Coaching opera anche a un livello molto più profondo, con clienti che spesso sviluppano maggiore autocoscienza e sensibilità.

I clienti iniziano a vedere il cambiamento come una trasformazione di cui sono autori e protagonisti, a essere più motivati e più capaci di regolare i propri comportamenti o, per riassumere questo insieme di aspetti con un termine più attuale, i clienti sviluppano maggiore intelligenza emotiva.

Uno dei bonus della professione di Coach sta anche nel fatto che lavorando con gli altri sviluppiamo queste qualità anche in noi stessi.

INDIPENDENZA

Alcune persone che vogliono diventare Coach sono attratte dall’idea di diventare il capo di se stesse. Invece di avere qualcuno che dice loro cosa fare, vogliono poter lavorare in proprio. Vogliono poter liberarsi dalla ruota del criceto del lavoro dipendente e diventare capitani della propria nave: lavorare solo quando vogliono, dipendendo solo dalle proprie decisioni.

Tipologie di Coaching

D: In cosa consiste il Life Coaching secondo la Norma UNI Italiana?

R: Nel “facilitare le persone a elaborare programmi concreti di autosviluppo ed autoefficacia verificabili attraverso obiettivi concreti; può essere utilizzato in ogni aspetto della vita privata delle persone. In particolare, in momenti di cambiamento o di passaggio attraverso le diverse fasi della vita.”

D: In che settori si può applicare il Coaching nel mondo aziendale secondo la Norma UNI Italiana?

R: Per “valorizzare e potenziare persone o ruoli sui quali l’organizzazione decide di investire (middle management, persone chiave, talenti, ecc.).”

Per “valorizzare e potenziare le competenze di persone più direttamente implicate nei risultati di business, in piani di start up, nella gestione di piccole e medie imprese (Imprenditori, General Management, Responsabili di Business Unit, Area Commerciale, Account, liberi professionisti, ecc.)”.

Per “valorizzare e potenziare persone con responsabilità di direzione (Amministratore delegato, Direttore generale, Direttori, ecc.).”

D: Nella Norma UNI Italiana sul Coaching è prevista una tipologia di Coaching per i genitori e gli educatori?

R: Si, il “Parent Coaching” che consiste nel “riconoscere e sviluppare le competenze genitoriali”.

D: Nella Norma UNI Italiana sul Coaching è previsto la specializzazione in Coaching applicato al mondo dello sport?

R: Si, lo “Sport Coaching” che consiste nel “migliorare la prestazione sportiva; il coach assiste lo staff tecnico e gli atleti, individualmente o in gruppo, nella giusta preparazione mentale ad affrontare nelle migliori condizioni il momento della prestazione sportiva.”

LIFE COACHING

I Life Coach lavorano con persone di ogni tipo, affrontando una vasta gamma di questioni. Anche se il Coaching in teoria non è un “rimedio”, nella pratica molte persone che si rivolgono a un Coach hanno delle questioni che vorrebbero risolvere, come ad esempio voler guadagnare più soldi o incontrare l’anima gemella.

Nella nostra esperienza di Coach, solo una minoranza ridotta dei clienti ha già vite meravigliose che vuole semplicemente migliorare ulteriormente.

Le persone richiedono i servizi di un Life Coach per molte ragioni diverse. A volte vogliono supporto nello stabilire obiettivi e nel raggiungerli. Altri vogliono semplicemente esplorare delle problematiche. Possono essere attratti da un’idea generale, come “progettare la propria vita”, oppure da cose più specifiche come: 

  • Costruire la propria autostima – molti clienti vogliono più fiducia in se stessi in una vasta gamma di situazioni
  • Gestire il denaro – affrontare una situazione finanziaria che è al momento fuori controllo
  • Fare un grande cambiamento – affrontare la situazione che si crea in seguito a un divorzio, l’avvio di una nuova attività, un inatteso cambio di mansione, la perdita del lavoro
  • Gestire le relazioni in modo più efficace – può trattarsi della relazione con coniugi, familiari, amici, capi o colleghi
  • Imparare a organizzarsi – gestire il tempo in modo più efficace e ridurre la tendenza a procrastinare sono argomenti che si presentano di frequente
  • Sapere cosa si vuole nella vita – a volte il Coaching può essere rivolto a questioni esistenziali e teso a lavorare sul senso della vita
  • Divertirsi di più – adottare lo stile di vita che si desidera
  • Sentirsi realizzati al lavoro – avere il lavoro dei propri sogni
  • Gestire i conflitti – superare le differenze interpersonali a casa o al lavoro, porre fine a faide familiari
  • Perdere peso, mettersi in forma – fare cambiamenti per sentirsi meglio riguardo al proprio aspetto

 Stabilire obiettivi

Una delle abilità più importanti del coaching consiste nell’aiutare le persone a definire e a consolidare i propri obiettivi.

Le metodologie del coaching sono centrate sulla soluzione e orientate verso il risultato piuttosto che verso il problema.

Una cosa è certa: senza un obiettivo, non è possibile stabilire alcun sistema di ricompense o di feedback.

Il dizionario Webster definisce “goal” [tradotto generalmente in questo articolo “obiettivo”, n.d.t.] “il fine verso il quale viene diretto uno sforzo o un’ambizione”, oppure “una condizione o uno stato che si desidera determinare attraverso una serie di azioni”.

Un obiettivo, dunque, è essenzialmente lo stato o il risultato desiderato da una persona o da un gruppo di persone.
È la risposta alla domanda: “Che cosa vuoi?”.
Gli obiettivi sono la fonte della motivazione e possono stimolare dei potenti processi di auto-organizzazione in grado di mobilitare sia le risorse consce, sia quelle inconsce.

In virtù dell’importanza del loro compito, è necessario che i coach aiutino i loro clienti a stabilire degli obiettivi appropriati e significativi.

In questo senso, essere un buon coach è un po’ come essere un buon tassista. Qual è la prima domanda che il tassista rivolge a voi clienti appena salite in auto?
Chiede: “Dove la porto?”.
E voi potrete dirgli: “Che esperienza tremenda. Abbiamo avuto un’infinità di problemi. È stato semplicemente terribile”.
Dopo avervi ascoltato pazientemente e dopo aver preso atto del vostro disagio, il tassista dovrà comunque, alla fine, ripetere educatamente la sua domanda: “Allora, dove la porto?”.
E stavolta potreste rispondere: “Beh, non voglio andare da McDonald’s, e l’ultima volta che sono andato allo zoo è stato tremendo. E sicuramente non voglio andare in un posto in cui faccia freddo”.

A volte, estrarre gli obiettivi ed i risultati dai clienti del coaching può rivelarsi impegnativo come abbiamo appena visto nell’esempio del tassista. Spesso, quando le persone richiedono di essere seguite da un coach, sanno con più chiarezza quello che non vogliono, piuttosto che quello che vogliono.

Definire gli obiettivi

Gli obiettivi vengono stabiliti per lo più in relazione allo stato presente oppure al tipo di problema. Per esempio, una persona potrebbe avere un problema relativo alla “paura di parlare in pubblico”.

1) Il modo più semplice (benché spesso il più problematico) di stabilire un obiettivo è quello di definirlo come negazione del problema.

Se il problema implica la “paura di parlare in pubblico”, una persona può inizialmente definire il proprio obiettivo così: “Voglio smettere di aver paura di parlare di fronte a un gruppo di persone”.

Questo è certamente un modo diffuso di identificare gli obiettivi e può essere un buon punto di partenza; ma il problema che può derivare da questa strategia è che questa non risponde, effettivamente, alla domanda: “Che cosa vuoi?”.

Infatti, questa strategia comporta l’affermazione di ciò che una persona non vuole, pertanto non definisce affatto un obiettivo. Le affermazioni in negativo come quella che abbiamo visto fanno spesso focalizzare le persone sul problema, piuttosto che sullo stato desiderato.

Considerate la provocazione in qualche modo paradossale di un invito come:

“Non pensare ad un elefante di colore blu per i prossimi trenta secondi”.

Per sapere a che cosa non dovete pensare, siete costretti a pensarci!

2) Un secondo metodo per stabilire gli obiettivi consiste nel definirli come diametralmente opposti al problema. Nel caso della “paura di parlare in pubblico”, la persona potrebbe dire: “Voglio sentirmi sicuro di me quando parlo di fronte ad un gruppo di persone”.

Anche questa è una strategia che ha una sua logica e che sicuramente aiuta la persona a focalizzarsi su qualcosa che sia diverso dalla situazione problematica; ma può anche determinare delle polarizzazioni e dei conflitti interiori.

Infatti, induce a fare continuamente dei riferimenti e dei paragoni con il problema. Per usare le parole di Albert Einstein:

“Non è possibile risolvere un problema con lo stesso livello di pensiero che sta creando il problema”.

Una polarizzazione viene definita allo stesso livello di pensiero del suo opposto.

3) Un terzo sistema per stabilire gli obiettivi comporta l’utilizzo di un riferimento esterno o di un modello che serva a definire lo stato desiderato.

Nella pianificazione e nello sviluppo di un’organizzazione si definisce questo sistema “benchmarking”. A proposito del problema di parlare in pubblico, una persona potrebbe affermare: “Vorrei essere in grado di parlare ad un gruppo di persone come faceva Martin Luther King”.

Questo approccio comporta alcuni vantaggi rispetto alla semplice negazione e polarizzazione.
Fornisce un riferimento concreto per un confronto e aiuta a spostar via l’attenzione dal problema.

Uno degli aspetti più impegnativi di questo metodo è la lontananza del risultato: si riferisce infatti ad un modello esterno, con cui può essere difficile identificarsi.

Naturalmente, può anche portare le persone a crearsi delle aspettative inappropriate, o determinare in loro l’incongruenza e l’insincerità che derivano talora dall’imitazione. Questo può portare a dei paragoni negativi e ad un senso di fallimento.

C’è anche il pericolo “ecologico” che un comportamento sia appropriato in un determinato contesto (ad esempio, quello del modello), ma inadeguato in situazioni diverse.

4) Un’altra strategia per la definizione degli obiettivi consiste nell’individuare delle caratteristiche chiave per definire la struttura dello stato desiderato.

Queste caratteristiche possono essere ricavate da se stessi o anche da modelli esterni. Tornando al problema della paura di parlare in pubblico, questa strategia potrebbe comportare un ragionamento del genere: “Voglio incarnare le qualità dell’eccellenza oratoria quando parlo ad un gruppo di persone; qualità come la flessibilità, la congruenza, l’integrità etc.”.

Si tratta di un approccio essenzialmente deduttivo, che comporta la manifestazione di caratteristiche e di principi di livello superiore all’interno di situazioni concrete. Mentre si apre ad una maggiore flessibilità di azione e di espressione, si discosta necessariamente dalle esperienze personali specifiche.

Pertanto, può portare a comprendere con molta chiarezza che cosa sia necessario, ma non è certo che le persone saranno in grado di fare ciò che loro sanno essere richiesto.

5) Un quinto metodo per definire gli obiettivi è quello di stabilire un risultato “generativo”. Piuttosto che venir definito relativamente ad un problema o a riferimenti astratti o esterni, un risultato generativo comporta il fatto di ampliare le risorse e le qualità che già sono in nostro possesso.

Gli obiettivi generativi affermano “quanto di più” vogliamo ottenere di una certa cosa e sono caratterizzati, appunto, dalla parola “più”. Per esempio, una persona potrebbe affermare che quando si rivolge ad un pubblico “vorrebbe essere più equilibrata e creativa”.

Un aspetto importante di questo metodo generativo per definire gli obiettivi è che si presuppone che una persona sia già in possesso di almeno alcune delle qualità e delle caratteristiche desiderate, e che sia in grado di metterle in pratica a livello comportamentale.

Con questo approccio, il risultato viene visto semplicemente come una condizione in cui si continua ad avere ciò che già si ha, ma in maggior quantità.

6) Tutto questo porta ad un’ultima strategia per definire gli obiettivi, e cioè quella di agire “come se” si fosse già raggiunto lo stato desiderato. È più difficile definire gli obiettivi, quando ci si trova ancora mentalmente associati in uno stato problematico.

Infatti, spesso, questo aspetto è esso stesso parte del problema; quando si rimane bloccati nel problema, è molto più difficile essere creativi e pensare a delle alternative. Con la strategia del “come se” ci si distoglie dallo stato problematico e ci si muove in direzione dello stato desiderato, immaginando come starebbero le cose se già lo si fosse raggiunto.

Per tornare alla necessità di parlare in pubblico, una persona potrebbe dire: “Se avessi già raggiunto il mio stato desiderato, mi sentirei rilassata e a mio agio di fronte alle persone proprio in questo momento”.

Tutte le diverse strategie per definire gli obiettivi hanno i loro vantaggi e aiutano sia il cliente che il coach ad avere una più ricca comprensione dello stato desiderato dal cliente. Infatti, la strategia più efficace per stabilire gli obiettivi è quella di utilizzare ciascuna di esse come parte del processo di definizione degli obiettivi stessi.

Considerate tutte insieme, costituiscono una potente sequenza per esplorare e per costruire obiettivi raggiungibili da numerose prospettive diverse.

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